FORMOSO, papa

di Jean-Marie Sansterre - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

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FORMOSO, papa. - Figlio di Leone, nacque intorno all'816 probabilmente a Roma, dove venne educato. Nell'864 il pontefice Niccolò I lo nominò vescovo di Porto in luogo di Rodoaldo, condannato per aver approvato la deposizione del patriarca di Costantinopoli Ignazio e per aver accettato la comunione con il successore di questo, Fozio, al concilio costantinopolitano dell'861. Colto e di austeri costumi, intraprendente ed energico, F. si distingueva per la forte personalità.

 

Nell'866 Niccolò I lo scelse per guidare, insieme con il vescovo Paolo di Populonia, la missione romana inviata in Bulgaria dopo la venuta a Roma di un ambasceria del khan Boris. Da poco battezzato da un vescovo bizantino, il sovrano bulgaro si era rivolto al papa e a Ludovico II il Germanico per ottenere, tra l'altro, l'autorizzazione a istituire nel suo Regno una Chiesa autonoma, autorizzazione che gli era stata negata dal patriarca di Costantinopoli. Il papa vide in questa iniziativa l'occasione per ristabilire la sua giurisdizione su una parte dell'antico Illirico, trasferito, più di un secolo prima, al patriarcato di Costantinopoli. Giunta in Bulgaria tra la fine dell'866 e l'inizio dell'867, la missione proseguì attivamente l'opera di evangelizzazione già in corso. Condusse anche una campagna contro il clero greco che si trovava nel paese, denigrandone i costumi e ottenendone rapidamente l'espulsione (che peraltro Niccolò I non aveva assolutamente richiesto); inoltre riuscì ad impedire che alcuni missionari inviati da Ludovico il Germanico si stabilissero in Bulgaria. Un così fulmineo successo era in gran parte dovuto all'ascendente che F. era riuscito ad acquisire sul khan. Nel settembre-ottobre 867 un'ambasceria bulgara si recò a Roma per chiedere che F. fosse designato arcivescovo della nuova Chiesa. Niccolò I rifiutò invocando le norme canoniche che vietavano il passaggio da una sede episcopale ad un'altra, ma probabilmente temendo che la guida di un primate come F. avrebbe potuto conferire alla Chiesa bulgara un'eccessiva indipendenza dalla S. Sede.

 

Poco prima di morire il pontefice dispose di inviare in Bulgaria altri due vescovi e di affidare a F. un'ambasceria a Costantinopoli. La decisione venne confermata dal successore Adriano II (consacrato il 14 dic. 867). Non sembra, però, che la missione di F. abbia avuto luogo, probabilmente a causa della difficile situazione venutasi a creare a Bisanzio a seguito dell'assassinio dell'imperatore Michele III e dell'ascesa al trono di Basilio il Macedone (867). Nell'868 F. rientrò a Roma dove fu - forse suo malgrado (Grotz, p. 166 e n. 57) - uno dei due vescovi scelti per ordinare i discepoli slavi dei ss. Cirillo e Metodio. Boris, tuttavia, ancora non disperava di poter avere F. come arcivescovo; dopo aver inutilmente proposto un altro nome, ritornò su quello di F. con un'insistenza che l'autore della biografia di Adriano II (con ogni probabilità il diacono Giovanni Immonide, in seguito deciso avversario dello stesso F.) giudica molto inopportuna. Anche questa volta, però, il sovrano bulgaro ricevette un netto rifiuto: nell'870, di fronte all'atteggiamento della S. Sede che non solo si opponeva alla scelta di F., e, soprattutto, rinviava di fatto la nomina del primate bulgaro, Boris decise di ritornare sotto la giurisdizione del patriarca di Costantinopoli.

 

L'insistenza sul nome di F. fu probabilmente all'origine di alcune accuse rivolte a quest'ultimo nell'876: egli avrebbe persuaso Boris a impegnarsi, sotto giuramento, a non accettare alcun altro come arcivescovo e avrebbe inoltre promesso di tornare al più presto in Bulgaria.

 

Secondo alcuni studiosi F. avrebbe tramandato il ricordo di questa sua missione in una pittura, conosciuta attraverso un disegno e una descrizione del Ciampini, che lo rappresentava ai piedi del Cristo, circondato da santi, in compagnia di un sovrano che sarebbe Boris (ma potrebbe trattarsi di un imperatore occidentale, Guido, Lamberto o Arnolfo: cfr. Ladner).

 

Impegnato nel governo della sua diocesi, F. costituì un punto di riferimento importante per la Curia romana durante tutto il pontificato di Adriano II; nel corso del sinodo romano del giugno 869 aderì alla proposta di dare alle fiamme gli atti del concilio di Costantinopoli dell'agosto-settembre 867 che, dietro sollecitazione di Fozio, aveva scomunicato e deposto il pontefice Niccolò I. Il Lapôtre ha avanzato l'ipotesi che F., il mese successivo, abbia pronunciato un importante discorso di fronte a un nuovo sinodo, riunitosi a Roma per trattare in particolare la questione del divorzio del re Lotario II. Ma l'attribuzione a F. di questo testo, comprendente 38 estratti di false decretali (editi a cura di F. Maassen, in Sitzungsberichte der K. Akademie der Wissenschaften in Wien, phil.-hist. Kl., LXXII [1872], pp. 532-554), è allo stato attuale degli studi una mera ipotesi (Arnaldi, 1978, pp. 197-200). In ogni caso Adriano II aveva deciso di inviare F. nelle Gallie, insieme con un altro vescovo, per preparare un concilio generale da tenersi a Roma sulla questione relativa a Lotario II re di Lotaringia, quando la morte di quest'ultimo (8 ag. 869) rese inutile la legazione. F. fu, poi, incaricato di un'altra importante missione: insieme con Gauderico di Velletri rappresentò la Sede apostolica ai negoziati tenutisi presso Trento nel maggio 872, tra Ludovico il Germanico e l'imperatrice Engelberga.

 

Alla morte di Adriano II (verso la fine dell'872) F. fu proposto al soglio pontificio in alternativa all'anziano arcidiacono Giovanni, da tempo attivo nel patriarchio lateranense. È probabile che contro F. fossero fatte valere le stesse motivazioni canoniche che in precedenza avevano impedito il suo trasferimento al vertice della Chiesa bulgara. La scelta cadde allora sull'arcidiacono Giovanni il quale il 14 dic. 872 fu consacrato papa, ottavo di quel nome. All'inizio, comunque, F. non si pose in contrasto con il nuovo pontefice e questi a sua volta trattò F. con riguardo, coinvolgendolo direttamente nella sua politica. Così, nell'agosto-settembre 875, lo inviò, con Gauderico di Velletri e Giovanni d'Arezzo, presso il re dei Franchi occidentali Carlo il Calvo - che contendeva a Ludovico il Germanico la successione alla corona imperiale dopo la morte di Ludovico II - per comunicargli che il papa aveva fatto cadere su di lui la sua scelta e lo invitava a Roma per farsi incoronare: una decisione, questa, che intendeva affermare il ruolo decisivo del pontefice nell'elezione imperiale. I rapporti si guastarono, però, quando Giovanni VIII volle liberare l'amministrazione pontificia dai membri dell'aristocrazia laica che vi avevano acquistato troppa importanza, in particolare il nomenclatore Gregorio e il genero di questo, Giorgio di Aventino. Legato a questa fazione e sentendosi minacciato egli stesso, F. fuggì, insieme con Gregorio di Aventino ed altri, nella notte fra il 14 e il 15 aprile 876. La fuga esasperò l'ostilità verso F. dei sostenitori di Giovanni, come testimonia l'episodio conclusivo della Vita Gregorii di Giovanni Immonide (Devos).

 

Due concili romani presero in esame l'accaduto: il primo (19 apr. 876) presentò una serie di accuse nei confronti dei fuggitivi e intimò loro, minacciandoli di anatema, di presentarsi entro breve tempo; il secondo (30 giugno 876) li condannò in contumacia, adducendo nuove accuse. F. fu deposto, ridotto allo stato laicale e scomunicato; gli si rimproverò di aver cercato di trasferirsi dalla sua sede episcopale ad un'altra più importante, tessendo intrighi presso Boris e brigando per il trono apostolico. Inoltre lo si accusava di aver abbandonato, fuggendo, la sua sede e di aver cospirato contro il papa e l'imperatore. Giovanni VIII si dimostrò però talmente ansioso di coinvolgere Carlo il Calvo nella questione - le sentenze del mese di aprile furono proclamate davanti al concilio di Ponthion nel luglio 876 - che non si può concedere troppo credito all'accusa di complotto contro l'imperatore. Vari studiosi hanno anche osservato a questo proposito che F. si rifugiò in Francia e non in Germania. Ma l'obiezione appare di dubbio fondamento: poiché F. in precedenza aveva forse soggiornato a Spoleto con gli altri fuggitivi, non è certo che sia arrivato in Francia mentre Carlo il Calvo (morto il 6 ott. 877) era ancora vivo.

 

F., comunque, incontrò Giovanni VIII a Troyes nell'878; proprio mentre il concilio, presieduto in questa città dal pontefice, confermava le sentenze dell'876, il vescovo deposto sollecitò umilmente il perdono del papa. F. ottenne di essere ammesso alla comunione dei fedeli laici in cambio dell'impegno scritto ad abbandonare Roma per sempre e a non tentare di recuperare la sua sede episcopale.

 

La situazione cambiò dopo la morte di Giovanni VIII, assassinato il 16 dic. 882: il nuovo pontefice Marino I (eletto nello stesso giorno) autorizzò il rientro a Roma di quanti erano stati condannati nell'876; inoltre sciolse F. dal giuramento fatto nell'878 e, dopo il giugno 883, gli restituì il vescovato di Porto. Contrariamente a quanto afferma il Lapôtre, i formosiani non approfittarono della posizione riconquistata per far scomparire documenti compromettenti, distruggendo le lettere della nona indizione del registro di Giovanni VIII (Lohrmann, 1968, pp. 135 s.). Di fatto nulla si sa del comportamento di F. durante i pontificati di Marino I, Adriano III (884-885) e Stefano V (885-891); è comunque certo che nell'885 non cadde nuovamente in disgrazia insieme con i suoi antichi compagni, il nomenclatore Gregorio e Giorgio di Aventino; F. rimase vescovo di Porto e come tale partecipò alla consacrazione di Stefano V (settembre 885).

 

In data sconosciuta stabilì la sua residenza episcopale sull'isola Tiberina, vicino alla chiesa che aveva voluto dedicare a s. Giovanni Calibita, dopo che, nell'868, Anastasio Bibliotecario aveva tradotto per lui dal greco la Vita di questo santo. Il definitivo trasferimento della sede episcopale di Porto in una località che doveva far parte da tempo della diocesi fu deciso soprattutto a causa delle incursioni saracene, ma è possibile che sia dipeso anche dalla volontà di riavvicinarsi alla Curia romana. Per sottolineare il rapporto di continuità tra l'antica sede all'Isola Sacra e la nuova dell'isola Tiberina, F. trasferì nella chiesa di S. Giovanni Calibita le reliquie di s. Ippolito e quelle di altri due martiri di Porto; sembra che avesse fondato anche uno xenodochio vicino, o all'interno della sua nuova residenza episcopale (a questo riguardo si vedano le due iscrizioni citate e commentate da Testini).

 

Nell'891, alla morte di Stefano V, F. salì al soglio pontificio, nonostante l'interdizione canonica relativa al passaggio di un presule da una sede episcopale all'altra; a questa norma si era del resto già derogato con l'elezione a pontefice di Marino I, il quale in precedenza era stato vescovo di Cere. Secondo le fonti più favorevoli a F., egli avrebbe ceduto, suo malgrado, alla volontà unanime degli elettori. Pur dubitando di questa versione dei fatti, non è comunque possibile conoscere le esatte circostanze dell'elezione. L'intronizzazione del nuovo papa ebbe verosimilmente luogo il 6 ott. 891.

 

Come il suo predecessore F. dovette immediatamente intervenire nel lungo conflitto fra le sedi arcivescovili di Colonia e di Amburgo-Brema, insorto quando, nell'848, la diocesi di Brema era stata separata dalla sede metropolitana di Colonia per passare a quella di Amburgo. Dopo aver fatto riesaminare la questione da un concilio riunito a Francoforte sotto la presidenza dell'arcivescovo di Magonza (892), F. nell'893 decise per una soluzione di compromesso: la Chiesa di Brema sarebbe rimasta unita a quella di Amburgo finché quest'ultima, con l'espansione del cristianesimo, non avesse avuto sedi suffraganee; nel frattempo l'arcivescovo di Amburgo-Brema era tenuto a prestare aiuto alla Chiesa di Colonia "per amore fraterno". La decisione fu però respinta dal concilio riunitosi nel maggio 895 a Tribur il quale sancì il ritorno della sede di Brema sotto la giurisdizione dell'arcivescovo di Colonia.

 

In questa vicenda F. ebbe modo di manifestare il suo particolare interessamento per l'evangelizzazione dei paesi nordici tanto più vivo in quanto egli stesso in passato era stato missionario. Il suo impegno nell'opera di evangelizzazione è altresì testimoniato dalla lettera inviata ai vescovi d'Inghilterra in data a noi ignota, nella quale li esortava a provvedere sollecitamente di nuovi titolari le sedi vacanti e a reagire contro il risveglio del paganesimo, conseguente alle incursioni e agli stanziamenti dei Vichinghi (Jaffè, n. 3506). F. intervenne poi in questioni riguardanti le province ecclesiastiche di Reims, Sens, Lione e Vienne e in altre riguardanti attentati contro vescovi, conflitti tra suffraganei e il loro metropolita, ordinazioni episcopali irregolari e altri problemi ecclesiastici.

 

F. partecipò anche all'ultima fase della disputa riguardante Fozio.

 

Questi era tornato sul trono patriarcale nell'877, alla morte del rivale Ignazio. Sebbene la sua restaurazione fosse stata approvata da Giovanni VIII e il concilio di Costantinopoli dell'879-880 lo avesse pienamente riabilitato, una parte del clero bizantino, appartenente alla fazione di Ignazio, aveva rifiutato di entrare in comunione con lui. A causa della loro opposizione gli ignaziani erano stati esiliati, ma avevano fatto ritorno nella capitale nell'886, quando il nuovo imperatore, Leone VI, aveva costretto Fozio ad abdicare e aveva fatto innalzare al suo posto il proprio fratello minore, Stefano. Il capo degli ignaziani, il metropolita Stiliano di Neocesarea, aveva allora scritto al pontefice romano Stefano V chiedendogli da un canto di confermare la deposizione e la condanna di Fozio, dall'altro di riconoscere con un apposito provvedimento di dispensa i sacerdoti da quello ordinati, in particolare il nuovo patriarca Stefano I che proprio da Fozio aveva ricevuto il diaconato. Stefano V aveva, però, respinto entrambe le richieste e aveva sollecitato informazioni più precise sulle vicende riguardanti l'avvento del nuovo patriarca. Nell'891 Stiliano aveva fatto un secondo tentativo, limitandosi a riproporre la richiesta di dispensa, la quale del resto implicava l'illegittimità dell'ex patriarca.

 

La lettera di Stiliano era indirizzata a Stefano V, ma fu F. a rispondere (891-892) con una lettera di cui conosciamo un solo frammento, conservato in greco in una raccolta antifoziana (Jaffè, n. 3478). In termini assai fermi F. dichiarava invalide tutte le ordinazioni di Fozio; disponeva che quanti fossero stati da quello ordinati avrebbero potuto essere ammessi alla comunione dei laici solo se avessero presentato un libello con la confessione del loro errore e con la richiesta di perdono; annunziava, infine, l'invio a Costantinopoli di due legati apostolici, i vescovi Landolfo di Capua e Romano, di sede a noi sconosciuta, i quali avevano il compito di ricevere i penitenti alla comunione laica e di scomunicare i recalcitranti.

 

Se si presta fede a questa fonte bisognerebbe ammettere che F., profondamente ostile a Fozio, abbia condannato come illegittimo il secondo patriarcato di questo, rompendo così con la linea politica seguita dai suoi predecessori. Appare invece molto più probabile, come hanno argomentato Grumel e Dvornik, che il compilatore della raccolta antifoziana abbia alterato il documento pontificio. Può darsi che gli ecclesiastici ordinati da Fozio che avessero fatto penitenza non fossero stati ridotti allo stato laicale, e, d'altra parte, è legittimo pensare che l'ingiunzione a ritrattare si rivolgesse ai soli religiosi ordinati all'epoca del primo patriarcato di Fozio, quello che era stato condannato sia da Niccolò I e da Adriano II, sia dal concilio costantinopolitano dell'869-870. Se così fosse F. avrebbe tentato un compromesso per ottenere un riavvicinamento degli ignaziani alla Chiesa ufficiale, andando incontro contemporaneamente al clero ordinato durante il secondo patriarcato di Fozio, fra cui era il patriarca Stefano I.

 

Il tentativo si rivelò, comunque, un fallimento. Le fonti non permettono di stabilire con certezza se la sentenza pontificia abbia provocato una nuova rottura fra Roma e Costantinipoli (Grumel), o se F. sia ritornato sulla sua decisione, non essendo in grado di imporla (Dvornik). È certo che la legazione pontificia, giunta nella capitale bizantina nell'892, non riuscì a riportare la pace religiosa in seno alla Chiesa greca. F. contava di prendere in esame anche questa questione, fra le altre, in un concilio generale che, inizialmente previsto per l'892 e quindi slittato all'anno successivo, non poté aver luogo a causa della situazione politica determinatasi in Occidente.

 

L'attenzione e l'impegno di F. furono, infatti, catturati allora dalle vicende della penisola e del mondo occidentale. Alla morte di Carlo III nell'888 era stato eletto re dei Franchi occidentali non già il legittimo erede, il giovane Carlo, detto il Semplice, figlio di Ludovico il Balbo, bensì il conte di Parigi Eude. A quest'ultimo si era ribellato nell'893 l'arcivescovo Folco di Reims, il quale aveva preso l'iniziativa di consacrare re Carlo il Semplice e quindi si era rivolto a F. per avere il sostegno della S. Sede. F. accolse la richiesta e tentò - con una serie di messaggi inviati a Folco, all'episcopato francese, a Eude e allo stesso Carlo tra la primavera e l'estate dell'893 - di arrivare ad una soluzione di compromesso.

 

Un altro problema preoccupava ben di più F., quello dei suoi rapporti con la casa di Spoleto. Il 21 febbr. 891 Stefano V era stato costretto ad incoronare imperatore Guido di Spoleto, dopo essersi invano rivolto al re di Germania Arnolfo che sarebbe stato per il Papato un protettore meno ingombrante e più prestigioso. In seguito alle insistenze di Guido, che voleva associare al trono imperiale il figlio Lamberto, F., il 30 apr. 892, procedette all'incoronazione di quest'ultimo: la cerimonia ebbe luogo a Ravenna e non a Roma, forse perché Guido non voleva dare eccessivo rilievo alla presenza del papa (Hiestand). In questa occasione i due imperatori conclusero con F. un accordo del cui testo si conoscono due brevi frammenti su papiro, ritrovati da G. e A. Mercati.

 

Tuttavia i rapporti tra F. e Guido ben presto si guastarono e, verso il settembre 893, messi pontifici, accompagnati da alcuni grandi nobili italiani, si recarono in Baviera chiedendo l'intervento del re Arnolfo perché liberasse l'Italia e la S. Sede dai "cattivi cristiani". Dopo un'inutile spedizione guidata dal figlio Sventibaldo, Arnolfo stesso scese in Italia, ma, giunto a Piacenza, ritornò indietro (894).

 

La morte di Guido, sopravvenuta lo stesso anno, rese possibile un riavvicinamento fra Lamberto e F., anche se l'intesa - cui aveva contribuito Folco di Reims, imparentato con la casa di Spoleto - fu di breve durata. Nell'agosto 895, istigato probabilmente dall'imperatrice madre Ageltrude, Guido (IV), cugino di Lamberto e reggente della marca di Spoleto, si impadronì di Benevento, da quattro anni in mano ai Bizantini. Poiché l'espansione degli Spoletini nell'Italia meridionale costituiva una diretta minaccia per il dominio pontificio, F. si rivolse di nuovo ad Arnolfo.

 

Il re di Germania scese in Italia nell'ottobre 895 e marciò decisamente su Roma dove era entrata, con un corpo dell'esercito spoletino, l'imperatrice madre Ageltrude. Costei, dopo aver ridotto F. e i sostenitori del partito pontificio all'impotenza, apprestò le difese della città contro le truppe di Arnolfo. Nel febbraio dell'anno seguente il re germanico ebbe, comunque, ragione della difesa di Roma ed entrò in città, mentre Ageltrude fuggiva a Spoleto. F. lo incoronò imperatore e il popolo romano gli prestò giuramento di fedeltà; due importanti membri dell'aristocrazia cittadina furono deportati in Baviera per aver appoggiato Ageltrude. Arnolfo rimase a Roma due settimane, quindi affidò la città ad uno dei suoi fedeli e marciò su Spoleto. Ma un attacco di apoplessia, che lo lasciò paralizzato, mise fine alla spedizione.

 

L'infelice esito dell'impresa di Arnolfo dovette colpire profondamente F. che non sopravvisse a lungo. Morì a Roma il 4 apr. 896 e il suo corpo venne inumato accanto a quelli dei suoi predecessori nell'atrio della basilica di S. Pietro.

 

Pochi mesi dopo, alla fine dell'896 o all'inizio dell'897, il cadavere di F. fu estratto dalla tomba e portato, vestito dei paramenti pontifici, in una delle principali basiliche romane dove comparve di fronte ad un concilio presieduto dal papa Stefano VI, secondo successore di F., il quale si era schierato a favore di Lamberto e di Ageltrude. Il corpo fu messo a sedere e un diacono ebbe l'incarico di rispondere, in nome del defunto, alle accuse portate contro di lui. F. fu condannato per non aver rispettato il giuramento pronunciato a Troyes e soprattutto per essere passato dalla sede di Porto a quella di Roma; fu quindi deposto e tutti i suoi atti annullati, comprese le ordinazioni che avevano avuto luogo durante il suo pontificato. La sentenza si tradusse in alcuni gesti simbolici: il corpo fu spogliato delle vesti pontificali, gli furono mozzate due o tre dita della mano destra, con cui benediva e procedeva alle ordinazioni, il cadavere fu quindi trascinato fuori della chiesa e infine sepolto nel cimitero degli stranieri; più tardi fu gettato nel Tevere.

 

L'orrendo processo non sembra possa attribuirsi al desiderio di vendetta di Lamberto e di Ageltrude: la loro presenza a Roma in quell'occasione non è affatto provata e d'altro canto l'invalidazione degli atti di F. annullava, insieme con l'incoronazione imperiale di Arnolfo, anche quella di Lamberto. La responsabilità della sentenza pesa, con ogni probabilità, su Stefano VI e sugli altri avversari di F. a Roma. Recentemente il Borgolte ha messo in rapporto questo processo con la concezione premoderna della sopravvivenza della personalità giuridica anche dopo la morte, ma questa interpretazione non appare sufficiente a spiegare un evento così eccezionale e macabro. Esso resta per noi tanto più difficile da comprendere in quanto poco sappiamo delle lotte fra le fazioni romane in quegli anni. Resta il fatto che la sentenza andava a vantaggio degli interessi del nuovo pontefice: fra le ordinazioni di F. essa annullava anche quella dello stesso Stefano VI come vescovo di Anagni, consentendogli in tal modo di occupare il soglio pontificio senza contravvenire alle norme canoniche. Comunque il papa non poté godere a lungo della legittimità così ottenuta: travolto da una sommossa, fu destituito (agosto 897) e morì, strangolato, in carcere.

 

Il secondo successore di Stefano, Teodoro II, ricondusse solennemente alla tomba in S. Pietro le spoglie di F., che un monaco aveva raccolto in riva al Tevere (fine dell'897); ma la questione non si concluse allora. Formosiani e antiformosiani si disputarono per parecchi anni il trono pontificio, mentre le ordinazioni di F. continuavano ad essere oggetto di decisioni contraddittorie. Teodoro II e Giovanni IX riabilitarono F. e proclamarono, nei concili di Roma (fine dell'897) e di Ravenna (898), la validità delle ordinazioni da lui fatte. Invece un sinodo romano presieduto da Sergio III nel 904 tornò alle risoluzioni del macabro concilio tenuto alla presenza del cadavere e pretese che i religiosi ordinati sia da F. direttamente, sia dai vescovi da lui ordinati, ripetessero l'ordinazione. Due sacerdoti della zona di Napoli, Ausilio (di origine straniera) e Eugenio Vulgario presero allora le difese di F. in numerosi scritti polemici; un anonimo religioso fece lo stesso in una Invectiva in Romam pro Formoso papa composta all'epoca di Giovanni X (914-928). Fu comunque durante questo pontificato che la disputa cessò.

 

    Fonti e Bibl.:

 

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